Continuo a guardare il film al computer, vagamente conscia di quello che accade oltre le cuffie che mi isolano dal mondo e mi portano in una realtà virtuale.
Signorina, un documento per favore.
Fisso stranita l’agente salito a Orvieto, non mi era mai capitato di dover dare documenti in treno. Cerco la carta d’identità mentre la signora ben vestita accanto a me sorride tranquilla. Mi colpisce ancora, come quando è entrata nello scompartimento vuoto fino al mio arrivo e mi ha salutato cordialmente con un «Buongiorno». Mai era capitato in un regionale di trovare qualcuno che salutasse entrando in uno scompartimento, sono cose da IC, dove i passeggeri sono più socievoli.
Ben vestita in toni chiari e con leggins rifiniti di pizzo alla caviglia color verde acqua, giovane, la pelle olivastra abbronzata, le belle valigie e gli occhiali da sole di marca mi sembrava un’araba, anche senza shador.
Porgo la carta d’identità al poliziotto, rimmergendomi subito nel mondo dello spionaggio.
SVISSS, la porta si riapre «Ecco a voi», laconico l’agente ci restituisce i documenti così noto la strana tessera che l’uomo restituisce alla signora: gialla e senape, a righe ondulate, sembrava una patente ma era diversa.
«Scusi, ma cos’è? Non l’ho mai visto prima» un sorriso accoglie le parole che mi sento pronunciare ad alta voce «è un permesso di soggiorno, vuoi vederlo?» affascinata, osservo quel pezzo di plastica che fa penare tantissime persone, capaci di stare in coda ore per lavorare in questo paese che a me sembra non offrire futuro.
Il film di spionaggio ha improvvisamente perso ogni attrattiva e le domande mi sgorgano senza sosta. La curiosità ha avuto il sopravvento: mi presento e chiacchieriamo un paio di minuti, poi le suona il telefono.
Parla in una lingua che non capisco, un misto di francese e altre parole sconosciute... cerco di tornare a guardare il film, per non essere invadente.
Chiude la conversazione e lacrime silenziose le rigano il volto, lievi singhiozzi la scuotono. «Tutto bene? Posso fare qualcosa?» Le parole escono ancora dalla mia bocca senza riesca a fermarle.
Stefania, ventisei anni, del Marocco, dolce e gentile, orgogliosa e determinata mi racconta la sua storia: è venuta in Italia due anni fa, quando ha sposato un uomo marocchino che viveva qua. Innamorata lo aveva seguito, scoprendo solo qui che aveva un’altra donna, italiana, più vecchia, che lo manteneva e con cui avrebbe dovuto vivere. La romantica capitale era diventata un’incubo per lei. Lo lascia, trova un lavoro e si trasferisce in Toscana, a Lucca, dove assiste un anziano per un anno e mezzo; ne parla con l'affetto riservato ad un caro che non c'è più.
«Sai ho fatto la scuola per infermieri nel mio paese, mi mancava solo 6 mesi, poi finivo, ma mi sono sposata. Mia mamma no piaceva lui, aveva detto che non era per me. Qui ho trovato un altro uomo, non era più lui, beve fumava..Hashis, sai...» il disgusto di come parla del bere e del fumare mi fa sentire in colpa per la sigaretta che sono scesa a fumare poco prima alla stazione. Mi sento sporca, provo vergogna.
Stefania continua a raccontare. Morto il signore ha avuto problemi con la famiglia, prima gentili, poi si rifiutano di pagarle la liquidazione e l’ultimo mese di lavoro; quando va al sindacato a lamentarsi per ottenere ciò che le spetta, la buttano fuori di casa, rimangiandosi la promessa di ospitalità. Sola, senza amici a Lucca si rifugia a casa di un’amica con un figlio piccolo a Orvieto: mancano due settimane al suo aereo per tornare a casa, dai suoi, alla terrazza da cui vede il mare...
Quando mi incontra sul treno sta tornando verso Firenze, spera in un amico che le trovi dove dormire là, perché non può permettersi un albergo e non vuole dormire per strada.
Commossa inizio a pensare come poterla aiutare: mi attacco al telefono e cerco un posto che la accolga per una decina di giorni, irritata di non aver abbastanza posto a casa per ospitarla.
Io vorrei lasciare la mia patria, lei vuole cercare lavoro dalla sua per tornare qua: ha ancora il permesso di soggiorno, appena rinnovato, e vuole finire la scuola da infermiera per tornare a fare ciò che le piace dove le piace. Certo, non è come a casa, non ha il mare qui, ma cerca di essere felice e indipendente e di risposarsi solo per amore.
Discutiamo di politica, di cultura, di quanto è diverso vivere qui, dei telegiornali orribili che abbiamo in Italia e di come migliorare questo paese.
Scendo dal treno, felice di averla incontrata, triste per non averla potuta aiutare quanto meriterebbe, con il suo numero di telefono e una promessa:«Chiamami se hai bisogno, a qualunque ora!»
Mi saluta con un sorriso sincero e commosso, ringraziandomi.
Scuote la mano verso di me, la vedo dal finestrino mentre trascino la mia valigia verso le scale.
L’Italia è tutto tranne che ospitale: trattiamo male le brave persone, gli altri li accogliamo a braccia aperte; siamo davvero un paese al contrario.
Commossa inizio a pensare come poterla aiutare: mi attacco al telefono e cerco un posto che la accolga per una decina di giorni, irritata di non aver abbastanza posto a casa per ospitarla.
Io vorrei lasciare la mia patria, lei vuole cercare lavoro dalla sua per tornare qua: ha ancora il permesso di soggiorno, appena rinnovato, e vuole finire la scuola da infermiera per tornare a fare ciò che le piace dove le piace. Certo, non è come a casa, non ha il mare qui, ma cerca di essere felice e indipendente e di risposarsi solo per amore.
Discutiamo di politica, di cultura, di quanto è diverso vivere qui, dei telegiornali orribili che abbiamo in Italia e di come migliorare questo paese.
Scendo dal treno, felice di averla incontrata, triste per non averla potuta aiutare quanto meriterebbe, con il suo numero di telefono e una promessa:«Chiamami se hai bisogno, a qualunque ora!»
Mi saluta con un sorriso sincero e commosso, ringraziandomi.
Scuote la mano verso di me, la vedo dal finestrino mentre trascino la mia valigia verso le scale.
L’Italia è tutto tranne che ospitale: trattiamo male le brave persone, gli altri li accogliamo a braccia aperte; siamo davvero un paese al contrario.
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